lunedì 10 settembre 2018

RIDE - Qualcosa di nuovo sotto il sole (e menomale)


Da due anni a questa parte si parla di rinascita del cinema italiano. Smetto quando voglio, Jeeg Robot, Veloce come il vento, Brutti e cattivi. Diciamo che tra commedia e film di genere qualche titolo particolare e degno di nota si è fatto vedere nelle sale ultimamente. Alcuni continuano a spopolare nell’on demand.

Poi c’è Ride. Ride nasce dalle penne di Fabio&Fabio (autori e registi di Mine con Armie Hammer) e Marco Sani, che poi hanno seguito la regia di Jacopo Rondinelli in modo pressochè maniacale, dato che tutto quello che ci sta intorno è un’enorme macchina dei record.
20 e più punti macchina (di cui la maggior parte GoPro, che non ingombrano, ma che poi devono essere sincronizzate in montaggio) in uno spazio aperto e vario come le Alpi del Trentino che è servito come set per simulare Black Babylon, un reality show in cui dieci bikers gareggiano per vincere una cospicua somma di denaro.
E come dice la tagline del film: Ride or Die. Corri o muori. Insomma non proprio il giro d’Italia.

Max e Kyle, i due protagonisti, sono due ragazzi oltre la trentina che non hanno ancora accettato pienamente l’età adulta, nascondendola dietro alle visualizzazioni dei loro video online in cui sfidano i limiti dell’adrenalina con pazzie su due ruote e scalate ai palazzi più alti (selfie a seguire).
Max ha debiti a causa del gioco d’azzardo, mentre Kyle non riesce a dare stabilità economica alla moglie e alla figlia piccola. Contro la loro volontà vengono catapultati nel mezzo di Black Babylon ed il resto è spoiler.
Il cuore di Ride sta nell’essere un pentolone pieno di sagge citazioni ibride tra cinema e videogioco e di essere quasi un marchio in via di sviluppo: infatti la campagna marketing è iniziata già dallo scorso NapoliCon ed è sfociata in una serie di attività fittizie (promozione della bevanda presente del film, creazione di una gara di downhill simile a quella del film) che apparentemente erano scollegate da ogni cosa.

Abbandonando il grande progetto per un attimo, andiamo ad analizzare in breve la pellicola: quando si dice che un film si scrive tre volte (sceneggiatura, regia, montaggio) Ride è proprio un caso limite di questo paradigma. Scrivere una storia che appoggia sul mistero e sulla sopravvivenza, e darle vita con una quantità record di camere accese in contemporanea è pressoché un mezzo miracolo. Il miracolo si completa quando gli anni luce di girato che porti in sala montaggio cominciano a prendere forma, ritmo, colore, narrazione.
Strutturato come un videogioco, quindi in Livelli, la storia segue anche i canonici tre atti che grazie ad un montaggio ferrato e che non perde mai un accento o una svolta. Anche visivamente è un videogioco: la grafica in sovrimpressione, la quantità di informazioni sulla gara in continuo movimento e gli stacchi che permettono molteplici punti di vista spostano i personaggi in una natura digitale.

In una lunga prospettiva, Ride potrebbe essere una sorta di piccolo Star Wars italiano.
Mi spiego meglio: tutto il merchandising e la transmedialità (non è una parolaccia, giuro) che la Lucas (e ora la Disney) hanno fatto dagli anni 70, potrebbero essere la scia che quest’idea - Ride prima di essere un film è una grande idea! -seguirà nei prossimi anni. Sarebbe un’ottima sveglia per l’economia del cinema del nostro paese, che non ha ancora nulla di veramente esportabile a livello del più recente La Casa di Carta prodotta da Netflix Spagna.

Da studente di cinema, la cosa non fa che gasarmi e ispirarmi. Vedere nuovi orizzonti del cinema italiano mi fa ben pensare che non dovrò passare una parte della gavetta che mi aspetta dietro ai fogli delle fiction buoniste e generaliste che passano in prima serata (con il dovuto rispetto per chi le produce, non sono il mio obiettivo), ma che esiste anche uno squarcio di produzioni coraggiose che hanno il fiuto e la curiosità di investire in prodotti come questo.

Anche se, non dimentichiamocelo, ci vuole una grande storia.
Ride ha una grande storia, che troverà altri mille modi per venire raccontata più a fondo.

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venerdì 7 settembre 2018

LE PORTE E I GIORNALI (National Geogrpahic)


Sul comodino ho una pila di giornali non letti
e quando ho tempo li apro e li taglio nel mezzo
per creare una magia che sta a metà tra carnevale e i lavori di Fontana.
Ci si possono trovare cose immense in un taglio
senza contare tutte le porte che apriamo quando non sappiamo dove andare
e che potrebbero portarci ovunque sorprenderci una volta per tutte,
magari hai l'Himalaya dietro casa e neanche te n'eri accorto.

Comunque col cazzo che le leggo le notizie
ne ho il pavimento pieno e ci scivolo sopra ogni volta
e ogni volta che cerco di tirarle su
succede qualcosa
tipo che mi entra un animale in casa
e devo portarlo fuori al parco
richiudere le porte aperte dal vento
che ho scoperto che quelle del lato nord
portano tutte verso la savana.

domenica 27 maggio 2018

SOLO - A STAR WARS STORY: cronache di una produzione rattoppata

Sono andato a vedere Solo: a Star Wars Story da solo.
Fa ridere. Ma non esisteva modo più azzeccato per andarci.
Probabilmente non è uno di quei film che, quando escono in sala, voglio andare tassativamente a vedere, ma avevo due, anzi tre buone ragioni per andarci: Ron Howard alla regia, Emilia Clarke nel cast e una sana voglia di staccare il cervello per un paio d'ore e finire in una galassia lontana lontana.

Ron Howard, la garanzia vivente

Andando dritto al punto: il film complessivamente è bello. Ha dei momenti molto interessanti, capovolgimenti di trama abbastanza telefonati, gag (ma meno rispetto a quelle della nuova saga) e un ottimo aggancio al film del 1977.
Ron Howard ha preso in mano le redini di questa pellicola in un momento di pazzia generale negli studi Disney, dopo il licenziamento in tronco, per divergenze artistiche dei due registi con cui era stata decisa la sceneggiatura.
Come dice un mio insegnante nel corso di scrittura: Ron Howard non è un grande regista ma è sempre una garanzia.
Non fa film capolavoro, ma ottimi film che sicuramente rimarranno nella storia (La triologia di Langdon, Il Grinch, Rush, A Beautiful Mind...), ed è stata l'operazione che in fretta e furia ha applicato anche allo standalone dedicato al fuorilegge più famoso delle galassie cinematografiche.

Chi, cosa e come

La trama parla del giovane Han che dopo aver abbandonato l'amore della sua vita (Emilia Clarke, mica scemo) sul pianeta natio occupato dalle forze imperiali di Darth Maul, vaga per lo spazio cercando di diventare il pilota più famoso di tutti. Un tipetto ambizioso, insomma.
Ad accompagnarlo il mentore Beckett (Woody Harrelson) e l'immancabile wookie Chewbecca, che incontrerà per la prima votla proprio in questo viaggio.
Tornano vecchi personaggi già visti (Lando Calrissian interpretato da Donald Glover che di questi tempi è come il prezzemolo) e se ne introducono di nuovi (come il cattivo Dryden Vos che ha la faccia di Paul Bettany o il robot L3-37).
Proprio grazie al robot, ecco che arriva l'animo sensibile della storia: grazie alla voce femminile di
Phoebe Waller-Bridge, viene più volte toccato il tema della discriminazione robot-umani, dove se mettete donna al posto di robot e uomo al posto di umani, abbiamo un ennesimo assaggio dell'emancipazione femminile nel mondo hollywoodiano, che tra un dialogo e l'altro è stata appiccicata con la coccoina scaduta nell'82 che Lucas teneva nel cassetto.

Un titolo azzeccato

La paura intorno al film era tanta perchè nessuno avrebbe mai creduto che si potesse rimpiazzare il vecchio Harrison (Ford) nel ruolo di Han. Ma, anche grazie all'aiuto di un acting coach, Alden Ehrenreich riesce a fare suo un personaggio che poco ci azzecca con la sua enorme mascella californiana. Dice essersi divertito durante le riprese e che non poteva fare a meno di indossare gli abiti di scena anche durante le pause. Ci crediamo anche perchè se si crea divertimento sul set, ne vedremo una parte anche in sala. E così è stato.
Il titolo, che credevo fosse solo di circostanza, invece è azzeccatissimo. Il film gira intorno all'idea di solitudine e di come affligga ognuno dei personaggi. 
Non esiste una persona nel film che non abbia un'anima di fondo cinica e bara, e tutti prima o poi vengono separati da qualcosa di importante.
Ad un certo punto del film vengono aperte linee narrative che probabilmente ritorneranno in altri film, come quella tra Han e il padre che gli sceneggiatori sostengono essere basata su quella che Springsteen aveva col proprio vecchio (leggetevi Born to Run per capire meglio).

Il problema di fare standalone di un è quello di non andare ad allargare il buco narrativo (nel senso di spazio, non di lacuna) che hanno già occupato i capitoli 4,5 e 6, ed è un problema che Solo non riesce ad evitare malgrado i propositi della produzione di renderlo una storia a parte.
Con Rogue One ci erano riusciti a pieno con un film pazzesco, con questo... probabilmente le divergenze produttive non erano l'unico motivo dei ritardi di uscita.

Comunque, andatelo a vedere questo Solo. Vale la pena anche per la fotografia e le musiche - John Williams firma il tema principale -, costumi ed effetti pazzeschi, oltre che per un cast stellare che promette (e mantiene) molto.

-Non è bello morire da soli

 

venerdì 27 aprile 2018

AVENGERS: INFINITY WAR - #Thanosdemandsyoursilence.

Dalla lettera dei Russo Bros:
"[...] Ti chiediamo, dopo aver visto Infinity War, di mantenere lo stesso livello di segretezza così che tutti i fan potranno avere la stessa esperienza che hai avuto nel guardarlo la prima volta. Non fare spoiler, così come non li abbiamo fatti noi. [...]".

Il fatto è che non posso proprio dire nulla. Non posso non parlare di Avengers Infinity War senza fare un briciolo di spoiler, senza raccontare lo stupore e lo sbigottimento avuti durante la visione del film.
È anche stupido raccontare di questo capitolo (il 19°) della saga Marvel perchè tutti sanno che è la resa dei conti di tutti gli eroi contro la vera minaccia che ha tessuto la trama delle altre 18 pellicole (alcune di più, altre di meno) durante gli ultimi dieci anni.

Piacere, Tony Stark

Me lo ricordo ancora quel 2008 quando uscì Iron Man e nessuno ci credeva. Ma io, che di cinecomic ne avevo visti pochi (Hulk e gli Spiderman di Raimi, insomma quelli che c'erano) non avevo la minima idea di chi fosse Tony Stark e tanto meno Robert Downey Jr. Avevo undici anni e ne rimasi affascinato perchè volevo essere anch'io Iron Man, l'uomo di latta spaccone, piacione e intelligente che non aveva paura a dichiarare la sua identità.

Ho vissuto gli altri film Marvel come un unico "speriamo che arrivi Iron Man a sistemare tutto!" perchè i primi due Thor, i primi due Captain America e Doctor Strange erano, sì godibili, ma anche noiosi dopo un po'. Iron Man era invece una costante ficata atomica perchè rendeva tutto più anomalo e il suo personaggio si sviluppava in direzioni diverse in ogni pellicola.
Ambedue i film Avengers si sono retti chiaramente sulle sue decisioni (poi vabbè, voi mi direte che sono film corali, e sono d'accordo) e sul suo carisma. Anche Civil War (film di Cap) alla fine era molto in mano sua.
Ebbenesì, #teamironman tutta la vita.

Breve parentesi sui Guardiani della Galassia: siamo tutti d'accordo sul fatto che hanno preso un genere neonato e l'hanno rifondato a modo loro.
Siamo tutti d'accordo che James Gunn (il regista) sia stato un vero azzardo che però ha funzionato. Siamo tutti d'accordo sul fatto che abbia messo d'accordo sia il pubblico maschile (Zoe Saldana è bellissima anche verde) che femminile (Chris Pratt è un sogno per le ragazze e un "modello" per i ragazzi).
Siamo tutti d'accordo sul fatto che ambedue siano film pazzeschi, alla faccia di chi dice che i sequel non reggono il primo film.

Una serie di nonspoiler

In Infinity War tutti hanno un peso specifico in diversi luoghi nella galassia, ci sono alleanze che non avrei mai pensato, dichiarazioni e ritorni potenti e... dannazione! Stavo per fare uno spoiler!
Un'anticipazione che non fa spoiler invece è la figura di Thanos, l'antagonista per eccellenza mosso da un bisogno più umano che malvagio che richiede un sacrificio enorme.
Il viaggio dell'eroe lo compie lui, non i vari supereroi, ed è un cammino fatto di scelte complicate che si celano oltre la corteccia viola che lo ricopre. Ad accompagnarlo, l'Ordine Nero, cioè i suoi tirapiedi, di cui solo il diplomatico Fauce d'Ebano sa distinguersi davvero - assomiglia molto a Pius, Ministro della Magia nell'ultimo libro di Harry Potter- . Gli altri scagnozzi sono personaggi di un videogioco senz'anima. Va bene, su questo mi fermo e non vado oltre.

Altre cose che troverete in Infinity War: l'amore, il ritorno, la sorpresa, la rabbia, il passato e, ultimo ma non meno importante, il sacrificio.

Una lezione per gli altri

Globalmente si può dire che come pellicola, malgrado le sue due ore e quaranta, non basta. Infinity War non inizia e non finisce (semi spoiler, ma già si sapeva) perchè tutto è già stato impostato negli ultimi dieci anni.
La Casa delle Idee è riuscita a portare una lunga serie tv sullo schermo senza che ce ne accorgessimo e l'ha fatto contro ogni pregiudizio hollywoodiano pre-2008, che ora invece si è ribaltato e fa da esempio a ogni produzione cinematografica "seriale". La Warner con la DC devono solo guardare questo film e capire come, con una storia che non segue strettamente i tre atti canonici, si può fare un gioiello senza pretendere di essere un capolavoro.

Io e quelli che siamo usciti dalla sala dopo la visione avevamo la stessa faccia. Ma non vi dico quale perchè dovrete guardarvi allo specchio per capirla davvero. Ma dentro sapevo che anche se le mie previsioni non si erano avverate, le mie aspettative erano ripagate. Due anni che aspettavo di vederlo ed ero soddisfatto perchè non c'è nulla di meglio della curiosità e di un film che non smette di rimbalzarti in testa una volta uscito dal cinema.
Farete teorie strampalate, cercherete una soluzione, proverete a pensare che no, questo non è uno spoiler.

E ora andate e vedetene tutti,
ma ricordatevi
#Thanosdemandsyoursilence

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Per celebrare Avengers Infinity War non ne ho fatta solo una di illustrazione, ma ben sei. Sei come le sei gemme dell'infinito che Thanos vuole possedere per attuare il suo piano.








lunedì 16 aprile 2018

I, TONYA - Una vita da film

Per festeggiare il nuovo anno, a fine dicembre sono andato a Londra. Penso che oer me sia stata la serata più lunga di sempre, dopo una giornata passata a camminare senza sosta da Portobello a Buckingham Palace. Una bella scampagnata per chi conosce il percorso.
Dicevo, la serata più lunga di sempre. Ma non starò qui ad annoiarvi per molto con questo aneddoto, perché quello che voglio raccontarvi è che quella volta sono andato a pattinare sul ghiaccio davanti al Museo di Storia Naturale. Non era la prima volta, già avevo provato da piccolo, ma in quel momento ho capito che pattinare è davvero difficile. Magari c'erano troppe persone. Magari sono io che ho poco equilibrio.
È stupido, lo so, ma è il solo metodo per cominciare a parlarvi di Tonya, film uscito da poco in Italia e che ha riscosso grande consenso tra la critica e i vari premi che ha ricevuto (da sottolineare l'Oscar a Allison Janey per la miglior attrice non protagonista).

Tonya - nel resto del mondo I, Tonya - è una pellicola che è tante cose ma è soprattutto una sorpresa. È una sorpresa vedere Margot Robbie in un ruolo forte e delicato che non la dipinga solo come la bambolina seducente; è una sorpresa che Sebastian Stan mi piaccia in un film (il mio odio verso Captain America lo ha inserito nella lista degli ATTORI NO); è una sorpresa trovarsi ad odiare tanto un personaggio di un film - la mamma di Tonya.
Tonya sta tra un biopic e il legal, il film sportivo e il drama. Barcolla quindi tra generi tenendosi sempre in piedi, volteggiando su una trama che permette ad ogni personaggio di orbitare intorno alla protagonista.
La stranezza stilistica che lo rende coinvolgente e veloce si concretizza come una serie di false interviste che raccontano i primi ventitré anni di vita di Tonya Harding. Ventitré anni che paiono durare più di una vita, una vita da film.
La versione dei fatti narrati é ulteriormente resa autentica dalla rottura della quarta parete e dalle parole dette guardando in camera dai personaggi. Cosa c'è di più vero di una confessione?

La ferita da invasione

La vera forza del film però sta nel ritmo del montaggio che ne fa un film a tratti poco mainstream. Le interviste giocano ad anticiparci dei fatti, commiserando le pedine sulla scacchiera che non sanno che mossa aspetta loro (McKee chiama questa tecnica ironia drammatica).
A colpire è certamente Tonya che, colpevole solamente di essere nata in un contesto redneck alla massima potenza, vede la sua carriera infrangersi a causa di due falsi alleati (il marito e la terribile madre). 
LaVona è la madre che nessuno vorrebbe avere. Rigida e austera, poco permissiva e fin troppo protettiva, è una donna facile da odiare. 
Jeff invece è un uomo incapace di amare da cui Tonya non riesce a staccarsi.
Il grande sogno della ragazza è quello di diventare una campionessa, ma la forte spinta della madre a dare il massimo glielo fa vivere come una lunga nausea. Un po' come Agassi o come la protagonista de Il cigno nero di Aronofsky.
La cosa che accomuna Tonya, Andrè e Nina è quella che il mio prof Giovanni Covini nel suo libro Le ferite dell'eroe chiama la ferita da invasione.
Siamo più o meno tutti sottoposti a quel tipo di pressione da parte dei genitori, quella in cui bisogna dare il massimo anche quando lo si dà già.
Jeff e LaVona tuttavia sanno equilibrarsi nei vari momenti, sanno darsi un limite fino a riconoscere i danni fatti.
 
Sebbene questa recensione sia racchiusa in un solo posto, è stata scritta in poco più di una settimana, dal pomeriggio dopo la visione, fino a una sera in cui riesco a concluderne il disegno e a corregerne gli errori. In questa settimana ripensare al Tonya mi ha fatto ragionare sul fatto che un personaggio come LaVona sia di una potenza incredibile e se, a distanza di qualche giorno, continua a ronzarti in testa provocando emozioni che vanno dall'odio profondo all'ammirazione (per come è scritto) è perchè è semplicemente perfetto.
Perciò, andate e odiatela tutti. Che il cinema serve a questo: a farvi emozionare.
 
 - Pensavo che essere famosa fosse divertente -
 
 
 

venerdì 30 marzo 2018

READY PLAYER ONE - Giocare col cinema

La prima cosa che ho pensato è stata "Madonna santa. Che figata".
Poi l'hype è salito e sono uscito dal cinema saltellando come un bimbo felice.
Ready Player One fa strani effetti sulla gente. O almeno su di me.

Il punto è che, come dice un mio compagno di classe (lo stesso profeta che aveva dichiarato che Lara Croft senza tette non è Lara Croft e che ci ha azzeccato ancora): Steven is back.
Lo dico con entusiasmo ma anche con il timore che dopo questo super blockbuster Spielberg possa adagiarsi sugli allori e fare qualche film mediocre (tipo gli ultimi, che sono mediocri per gli standard suoi, mica per quelli mondiali) e ritirarsi sul suo yacht nei pressi di Capri.
 
Ho deciso di vedere Ready Player One nel giorno d'uscita perché ero troppo curioso.
Chi è curioso si sa, va all'inferno. Ma io credo di essere andato nell'Oasis che è anche meglio.
Tralasciando la scorbutica signorina alla biglietteria (un ottimo guardiano della prima soglia, per chi ha masticato il manuale di scrittura di Vogler) direi che la scelta è stata azzeccata e, ripeto, soddisfacente.
Quello che ho visto fare dal vecchio Steve è stato giocare col cinema.
Giocare perché la base del film è un videogioco, col cinema perché... beh ragazzi sempre di Spielberg si parla.
Immaginate quindi di prendere il bambino che è in voi, aumentate la dose nerd che vi abita - ne basta poca, guardate me - ed entrate in un futuro distopico.

Alla ricerca dell'easter egg

Anno 2045. Dopo disastri di vario genere il mondo è un cumulo di macerie tecnologiche in cui la gente passa il tempo in una realtà virtuale camuffata da videogioco per guadagnare e portare a casa la pagnotta.
La penna geniale di Ernest Cline (autore del romanzo - che non ho letto - su cui è basato il film) è musa per il regista di E.T., che spreme la migliore CGI possibile per portare lo spettatore in un ibrido di avatar e persone.
Il viaggio dell'eroe è quello di Wade aka Parzival (Tye Sheridan), che cerca di trovare l'easter egg nascosto nell'Oasis (il videogioco in VR di cui parlavo poco fa), in concorrenza al resto della popolazione.
Ottenere l'oggetto desiderato è come arrivare alla fine del viaggio nella fabbrica di Willy Wonka: assurdo, avvincente ma soprattutto permette di ereditare il controllo del giocone.
Tre chiavi da trovare, tre prove. Una sorta di Torneo Tremaghi che più che Tremaghi diventa Multiplayer.
Certo, i veri nerd si saranno bagnati le mutande solo a pensarlo, ma la goduria è garantita a tutti.

Ad accompagnare Wade (orfano e senza amici, ma con il piglio giusto per diventare un proto Han Solo nel terzo atto) ci sono Aech, Art3mis e i ninja Daito e Shoto. Oltre alla montagna di elementi della cultura pop, dagli anni 80 ad oggi, che è tanto di moda quanto un appiglio per Spielberg (che ne ha creato una parte).
Come Master del gioco, il creatore James Halliday (in pieno stile Steve Jobs. Quindi incompreso, visionario ma soprattutto morto) interpretato da Mark Rylence con tanta leggerezza da volergli bene.
Il controller nemico è invece nelle mani di Mr.Sorrento (più italiano di così non si può), magnate del futuro con malvagi piani per appropriarsi dell'egg e monopolizzare il gioco, quindi dell'economia, quindi della gente.

Tre cose tre

Le cose geniali da sottolineare sono tre: la prima è la continua ricorrenza al cinema classico nelle piccole citazioni (probabilmente tratte dal romanzo) che Spielberg adatta e adagia con rispetto nella trama. Parlo principalmente di Shining e di Citizen Kane, uno visuale, l'altro in sottotesto, che mi hanno fatto sorridere ed esclamare "Allora Welles è servito anche a questo!".
La seconda è l'idea di controllo del film (che per chi scrive è la base di tutto. In breve, è il punto in cui la storia ritorna in ogni scena, il messaggio velato del film). Tra avatar e realtà ci sta in mezzo uno schermo. E chi sta da una parte, quasi mai corrisponde a chi è dall'altra. 
Un'idea attuale, profonda, scomoda per il futuro.
Perché tutti abbiamo un'imperfezione da nascondere agli altri (chi un dramma famigliare, chi un'età che lo sminuirebbe, chi un'identità che non lo rappresenta, chi una voglia sul volto) e non c'è miglior modo di eliminarla se non con una maschera.
La terza è Stand on It di Springsteen. Sono un devoto del Boss. Ho ballato sul posto quando è partita.

La domanda alla fine è: vivreste nell'Oasis?
Mentre pensate alla risposta, fateci un giro nella demo.
Dura 140 minuti, ma volano via.
Sarà come tornare indietro guardando in avanti.
Sarà come capire quanto noi ci fingiamo un profilo online e viceversa.
Farà paura ma ne vale la pena.
Parola di Spielberg.


​- La realtà è l'unica cosa reale -




RIDE - Qualcosa di nuovo sotto il sole (e menomale)

Da due anni a questa parte si parla di rinascita del cinema italiano. Smetto quando voglio, Jeeg Robot, Veloce come il vento, Brutti e...